Tornare a casa. Cronache da una vita senza tecnologia, il volume di Mark Boyle edito da Piano B. Un libro che fa riflettere perché segna una linea di demarcazione netta su cosa veramente ci sia più necessario
“I tecnoutopisti puntano tutto sull’intelligenza artificiale, ma a prescindere da cosa ci riserva il futuro, datemi sempre e comunque l’intelligenza naturale.” Mark Boyle scrittore irlandese ed editorialista del Guardian, laureato in Economia, è il fondatore di Freeconomy, un’economia alternativa basata sullo scambio e sull’aiuto reciproco tra gruppi locali, presente ormai in oltre centottanta paesi. È divenuto celebre in tutto il mondo nel 2008, quando lasciò il lavoro per provare a vivere senza soldi. Il suo libro The Moneyless man è divenuto un bestseller mondiale.
Dal 2016 vive in una baita autocostruita nella contea di Galway, in Irlanda, facendo a meno di ogni tecnologia moderna: Tornare a casa è il resoconto del primo anno di questa esperienza. Tornare a casa – caso editoriale dello scorso anno in Inghilterra- è stato tradotto in Francia, Germania e Spagna. Un volume che nello sfoglio pone diversi interrogativi, suscitando anche qualche perplessità.
Tornare a casa: la vita fuori dall’ordinario di Mark Boyle
Davvero sarebbe possibile oggi vivere senza tecnologia? Ritrovarci in casa, con la luce tenue di una candela, senza smanacciare, in preda ad un’ossessione, il cellulare con le fantazotizie che troppo spesso propone? Per Mark Boyle parrebbe di sì. Io, tendenzialmente solitario e amante della natura e del silenzio, qualche dubbio me lo pongo. “Tutti mi chiedono se continuerò a vivere così. Di certo non provo alcun desiderio di ricascare in un modo di vivere che baratta la comodità al prezzo di tutto ciò che contraddistingue l’essere umani”.
Niente acqua corrente, niente auto, niente elettricità e di conseguenza niente internet, telefono, lavatrice, radio o lampadine. Solo una baita di legno al margine di un’abetaia. Romantica la scena ma fa un po’ venire in mente la celebre battuta di Fiorella su Un sacco bello: “Sì però, pure la campagna, du’ palle”.
In questa sincera e appassionata cronaca di una vita fuori dall’ordinario, senza l’aiuto della moderna tecnologia, Mark Boyle esplora le gioie, guadagnate col sudore della fronte, del costruirsi una casa con le proprie mani, imparare ad accendere un fuoco, procurarsi l’acqua dalla sorgente, e procacciarsi il cibo. “Per la prima volta mi sentivo collegato all’enorme bestia che viveva e respirava sotto di me”.
Un’esistenza elementare, governata dai ritmi del sole e delle stagioni in un ambiente primitivo fatto di sangue, legno, letame, acqua e fuoco – nulla di diverso da ciò che l’uomo ha vissuto per la maggior parte della sua permanenza sulla Terra. Fa riflettere anche che Mark Boyle, dopo 11 anni di veganismo oltranzista, vivendo immerso nella natura e bisognoso di “energie”, abbia ricominciato a mangiare proteine animali. Non sono poche le righe che dedica, nel suo racconto, a questa “riconversione”. Segno che pur amando gli animali, in condizioni estreme, probabilmente, fuori dalle ricche tavole del benessere all’occidentale, forse, saremmo tutti più costretti a rividere i nostri principi, seppur sacrosanti. Poi diciamolo francamente: ad una famiglia con 4 figli che deve far quadrare i conti, dire di mangiare quinoa è francamente improbabile. Il volume di Mark Boyle, apre, dunque, ad una profonda riflessione su cosa significhi essere umani, in un’epoca in cui i confini tra uomo e macchina sono ogni giorno più confusi.
“Dal momento che il modo in cui viviamo e pensiamo è modellato dalle tecnologie che usiamo, il vero pericolo non è che i computer inizieranno a pensare come gli uomini, ma che la gente penserà come i computer”. In medio sta virtus, insomma. Altrimenti, se il cervello non funziona, non basterà nemmeno la natura a redimerci. Ma sicuramente contribuirà a darci un maggiore equilibrio.
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