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Tempo di neve, conosciamola meglio

Tempo di neve, conosciamola meglio
Foto di jacqueline macou da Pixabay

Non c’è che dire: quando arriva, la neve, con il suo manto candido trasforma i paesaggi in incantevoli luoghi in cui sembrano danzare qua e là fate, elfi, gnomi. Certo, le stagioni non sono più quelle di un tempo, come si dice, e può accadere che certe magie si trasformino in incubi. La neve, del resto, come per tutti gli elementi naturali, bisogna conoscerla, rispettarla e a volte temerla, anche, perché è necessaria per la nostra sopravvivenza.

In proposito noi di GPNews consigliamo la lettura de “I giorni della neve” (Dea Planeta), romanzo naturalistico sulla nascita di una salda amicizia tra due padri, uno cittadino amante della montagna, l’altro scienziato che invece le vette le studia: si incontrano in Valle d’Aosta e iniziano a passeggiare in alta quota, “scambiandosi” la passione per la neve, che può essere pace e libertà ma pure pericolo.

Gli autori sono Francesco Casolo e Michele Freppaz, professore associato di pedologia e nivologia presso l’Università di Torino, al Dipartimento di Eccellenza di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari. Presidente tra l’altro del Centro Interdipartimentale sui rischi naturali in ambiente montano e collinare NatRisk, è responsabile dell’Istituto scientifico Angelo Mosso. Insomma, il professor Freppaz sa tutto di neve e gli abbiamo chiesto di raccontarcela.

Professore, che cos’è un fiocco di neve?

Bisogna cominciare con il descrivere l’affascinante processo estremamente complesso di formazione dei cristalli di neve, che avviene all’interno delle nubi, costituite principalmente da un insieme di minuscole goccioline d’acqua in sospensione nell’aria. Queste goccioline, di dimensioni dell’ordine di alcuni micron, derivano dalla condensazione del vapore acqueo, gas invisibile contenuto nell’aria. Nelle nubi fredde, la cui temperatura è al di sotto degli 0°C, alcune di esse congelano, altre rimangono liquide, nel cosiddetto stato di sopraffusione. Congelano tutte soltanto a temperature inferiori a -40°C, mentre a temperature più alte il processo di congelamento è favorito da minute particelle, sia minerali, sia organiche, che fungono da nuclei di congelamento. In questo modo iniziano a formarsi i germi di ghiaccio, di struttura esagonale, che si accrescono a spese delle goccioline d’acqua allo stato liquido che li circondano.

Allora i cristalli di neve non sono tutti uguali?

No. Partendo dalla struttura esagonale, la temperatura e l’umidità dell’aria danno al cristallo di neve forme infinitamente varie, favorendo la crescita di alcune parti di esso. Con basse temperature fino al suolo i cristalli cadono singolarmente o si aggregano in fiocchi leggeri, depositandosi al suolo sotto forma di neve leggera, polverosa. Se invece la temperatura al suolo è maggiore e prossima agli 0°C, i fiocchi si fanno più pesanti, originando un manto nevoso più denso e umido.

Bastano piccole variazioni di temperatura e umidità dell’aria a cambiare i tipi di cristallo che precipitano al suolo, così come la quantità di neve che può accumularsi. Le Alpi e gli Appennini, in relazione alla loro vicinanza al mare, alle temperature relativamente miti, ad esempio, sono zone molto nevose, sicuramente più nevose rispetto ad altre parti del nostro pianeta.

Una volta al suolo cosa succede ai cristalli di neve?

Iniziano a trasformarsi, secondo processi definiti metamorfismi, originando nuovi tipi di grani, sfaccettati o più o meno arrotondati, forme che rendono gli strati del manto nevoso più o meno instabili, rendendolo comunque un habitat favorevole ad ospitare diverse forme di vita, quali alghe e batteri. Allo stesso modo il manto nevoso accumula specie chimiche, sia durante la formazione e la caduta dei cristalli di neve, sia quando si trova al suolo, diventando un efficacissimo sensore della qualità dell’aria e dell’ambiente circostante.

E con il disgelo?

Quando avanza il disgelo, in primavera, la neve non smette certo di stupirci, rilasciando le specie chimiche nell’arco di un brevissimo tempo, nei primi giorni della primavera, secondo un processo definito ionic pulse, con l’arrivo al suolo di un’acqua di fusione estremamente concentrata. Evidentemente le specie vegetali hanno interesse a sfruttare questi nutrienti e per questo spesso iniziano la ripresa vegetativa quando ancora sono coperte dalla neve, in modo da poter sfruttare tale fertilizzazione naturale.

Il manto nevoso è sensibile ai cambiamenti climatici?

Sì, estremamente sensibile. Quando le temperature aumentano, la neve cade più frequentemente sotto forma di pioggia oppure la neve già caduta fonde con maggiore frequenza e rapidità. Tutto questo può causare variazioni a livello di estensione, spessore e densità del manto nevoso. Per poter quantificare tali cambiamenti e classificare correttamente i singoli inverni con poca o tanta neve, è importante disporre di serie pluriennali di misure. Ad esempio uno studio dell’ARPA (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, ndr) del Piemonte pubblicato nel 2013 ha evidenziato nelle Alpi Piemontesi nel periodo 1961-2010 una generale riduzione delle precipitazioni nevose, particolarmente accentuata alle quote inferiori ai 2000 m. Sempre nello stesso periodo lo studio ha evidenziato una diminuzione dello spessore medio stagionale del manto nevoso, più accentuato nelle ultime decadi. Anche la durata della copertura nevosa ha mostrato in tutte le stazioni analizzate trend negativi, più accentuati nelle stazioni poste alle quote prossime ai 1500 metri.

Come si deposita la neve sul suolo?

La neve tende a depositarsi e permanere al suolo in maniera ricorrente, per effetto della morfologia dei versanti, della rugosità della superficie, dell’azione del vento. In Giappone, ad esempio, nelle regioni di montagna, c’era la tradizione di osservare e catalogare i cosiddetti yukigata, ossia i motivi che la neve, con l’arrivo della primavera, disegnava fondendo sulle rocce e sui versanti in maniera caratteristica. Alcune forme disegnate dal manto nevoso ricorrevano sempre uguali e sempre nello stesso momento: così le società contadine se ne servivano come una sorta di affidabile calendario sapendo che se avessero visto in quel certo punto della montagna un animale come un cavallo significava che si era ai primi di aprile, un cervo, invece, ai primi di maggio.

I vecchi dicevano: sotto la neve pane… è vero?

Il manto nevoso che si deposita nel corso dell’inverno, se di sufficiente spessore e non troppo denso, è un ottimo isolante termico. Maggiore è il contenuto d’aria al suo interno, maggiore è la sua capacità di mantenere al caldo il suolo sottostante, indipendentemente dalla temperatura dell’aria.

Nei pressi della nostra stazione di ricerca d’alta quota, l’Istituto Scientifico Angelo Mosso, a 2901 m sul livello del mare, nel corso dell’inverno, se è presente un manto nevoso di almeno 80 cm, la temperatura del suolo rimane prossima agli 0°C, anche se la temperatura dell’aria può scendere anche intorno ai -25°C. Questo fenomeno come accennato è importantissimo per gli organismi che vivono nel suolo, per le piante. Se il manto nevoso non è di sufficiente spessore, il suolo non viene adeguatamente protetto e può andare incontro a fenomeni di congelamento, con effetti sul ciclo degli elementi nutritivi del suolo e sulla vitalità degli apparati radicali.

Esiste uno stretto rapporto suolo/neve?

I processi all’interfaccia suolo/neve sono fondamentali per capire l’ecologia delle aree montane, e solo un approccio interdisciplinare è in grado di comprenderne a fondo i fenomeni. Non è facile, ma solo l’unione di due discipline quali la nivologia (la scienza della neve) e la pedologia (la scienza del suolo) permette di indagare con successo i delicati equilibri che caratterizzano le aree stagionalmente coperte dal manto nevoso.

Le foto dell’articolo sono state fornite da Michele Freppaz e ritraggono le attività di ricerca condotte nei pressi dell’Istituto Mosso, storico Istituto Scientifico dell’Università di Torino (inaugurato nel 1907), nel comune di Alagna Valsesia, al confine con Gressoney La Trinité, in Valle d’Aosta. Posto sulle pendici del Monte Rosa, è un sito ideale per lo studio della neve, inserito nella Rete LTER Italia, struttura dedicata alla promozione e al coordinamento della ricerca ecologica a lungo termine. Angelo Mosso è stato un famoso docente di fisiologia umana dell’Università di Torino, a cavallo tra fine 800 e primi del Novecento, pioniere dello studio dell’adattamento dell’uomo alle alte quote.

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