Ha appena superato il suo 15° compleanno, l’Associazione ScanZiamo le Scorie. “Nasce il novembre 2003 quando il governo Berlusconi decide che il territorio di Terzo Cavone, Scanzano Jonico, Matera, avrebbe dovuto ospitare un impianto di scorie nucleari. Seguirono 15 giornate di una immediata e ferma protesta da parte dei cittadini
E il progetto, peraltro non supportato scientificamente, finì lì. Ma la battaglia contro la follia nucleare continua”, dice Pasquale Stigliani, portavoce dell’associazione nonché capo della segreteria particolare del presidente della X Commissione Industria, Turismo e Commercio del Senato, Gianni Girotto, in cui si è parlato di depositi di scorie e rifiuti nucleari qualche mese fa, a settembre, con un atto, ovvero quella serie di documenti prodotti da tutti gli attori coinvolti che non fanno parte dell’attività legislativa. Per chi vuole, è l’atto n. 60, dal titolo Affare sulla gestione e messa in sicurezza dei rifiuti nucleari sul territorio nazionale. Sinceramente, c’è un po’ da perderci la testa, da parte di noi cittadini. Ecco curiosando qua e là, cosa abbiamo capito (ma tutto è in evoluzione, naturalmente).
Chi si occupa di smaltire scorie e rifiuti?
Una società dello Stato, la Sogin, responsabile del mantenimento in sicurezza e del decommissioning (cioè dello smantellamento) degli impianti nucleari italiani, le 4 centrali nucleari, ovvero Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta) e l’impianto nucleare di Bosco Marengo (Alessandria). Sogin gestisce poi lo smantellamento degli ex impianti di ricerca sul ciclo del combustibile EUREX di Saluggia (Vercelli), OPEC e IPU di Casaccia (Roma) e ITREC di Rotondella (Matera). E pure altri rifiuti radioattivi, quelli prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare, ad opera della sua controllata Nucleco. Sogin ha anche il compito dello smantellamento del reattore Ispra-1, situato nel complesso del Joint Research Center (JRC) di Ispra (Varese), dove si sono iniziati a produrre rifiuti atomici dal 1957.
Che cosa sono la CNAPI e il Deposito Nazionale
Tutti i rifiuti radioattivi sparsi in giro per l’Italia dovrebbero finire in un unico Deposito Nazionale: circa il 60% deriva dalle attività di esercizio pregresso e dalle operazioni di smantellamento degli impianti nucleari, mentre il restante 40% circa, dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca, che continueranno a generare rifiuti anche in futuro. Dove sarà questo luogo ancora non si sa.
La Sogin ha però proposto una carta geografica particolare, la CNAPI, Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee, sulla base dei criteri definiti dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per identificare il posto giusto. Tale proposta è stata consegnata all’Autorità di Controllo ISPRA, che ora si chiama ISIN, Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, già nel 2015, mettendola naturalmente a disposizione anche dei due ministeri competenti, cioè Ambiente e Sviluppo Economico. Da allora la CNAPI è costantemente aggiornata: ad esempio in base alle evoluzioni sismiche del nostro paese, avvalendosi delle informazioni legate tanto per dire alla nuova versione del DISS (Database of Individual Seismogenic Sources) dell’Istituto Nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV).
Come sarà il Deposito Nazionale?
Un’infrastruttura di superficie costituita da strutture per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività: 90 costruzioni in calcestruzzo armato, dette celle, all’interno delle quali verranno collocati grandi contenitori in calcestruzzo speciale, i moduli, che racchiuderanno a loro volta i contenitori metallici con i rifiuti radioattivi già condizionati, detti manufatti. Nelle celle verranno smaltiti circa 78mila metri cubi di rifiuti a molto bassa e bassa attività e una piccola parte di media attività: circa 33mila metri cubi di rifiuti sono già stati prodotti, mentre i restanti 45mila metri cubi verranno prodotti nei prossimi 50 anni. Una volta completato il riempimento, le celle saranno ricoperte da una copertura di materiali inerti e impermeabili, un’ulteriore protezione anche da eventuali infiltrazioni d’acqua. In un’apposita area del deposito, sarà realizzato un complesso di edifici idoneo allo stoccaggio temporaneo di lungo periodo di circa 17mila metri cubi di rifiuti di media e alta attività, che verranno poi sistemati definitivamente in un deposito geologico di profondità. Di questi, circa 800 metri cubi sarà il volume complessivo che sarà occupato dal combustibile non riprocessabile e dai residui del combustibile riprocessato all’estero.
Al Deposito Nazionale è collegato un Parco tecnologico. Si tratta di un centro di ricerca sullo smantellamento degli impianti nucleari e sulla gestione dei rifiuti radioattivi, sulla radioprotezione e sulla salvaguardia ambientale. La ricerca sul decommissioning e la gestione dei rifiuti radioattivi permetterà, ad esempio, di sviluppare nuove tecnologie per ottimizzare i processi di smantellamento, migliorare la sicurezza degli operatori e minimizzare i volumi dei rifiuti che continueranno a essere prodotti in Italia.
Che cosa si può recuperare da un impianto nucleare?
Il decommissioning nucleare non produce solo rifiuti radioattivi, ma gran parte del materiale che ne deriva (ferro, calcestruzzo, rame, plastica e così via) viene recuperato e riciclato.
La Sogin ad esempio, delle circa 320mila tonnellate di materiali che saranno prodotti complessivamente dallo smantellamento della centrale nucleare di Caorso saranno recuperati, e riciclati, oltre 300mila tonnellate (il 93%), per la maggior parte composte da metalli e calcestruzzo.
In questa centrale, già nel 2013-2014, lo smantellamento dell’edificio Off Gas ha prodotto circa 7mila tonnellate di calcestruzzo (non radioattivo) che sono state trasformate in materia prima secondaria e riutilizzate per riempire gli scavi prodotti dallo smantellamento dei sistemi interrati attigui all’edificio.
Un altro esempio molto recente è il recupero e riutilizzo dei materiali prodotti dallo smantellamento del rotore e dell’alternatore della turbina della centrale del Garigliano. Tutto il materiale prodotto, circa 400 tonnellate, è stato allontanato dal sito, dopo essere stato opportunamente controllato, e il 96% è stato trasferito in centri di recupero e di lavorazione, come le fonderie per i metalli, per essere reinserito nel ciclo produttivo.
L’immagine di apertura è un’ispirazione di come sarà il Deposito Nazionale e il Parco Tecnologico collegato.