Avete mai sentito parlare di attivismo pedagogico? Era la fine del 1800 e il filosofo americano John Dewey decise di mettere la prima pietra della pedagogia moderna dando luogo ad un concetto rivoluzionario e attivista della didattica.
Per definizione l’attivismo è la tendenza a intensificare il lato attivo, creativo e innovativo della vita umana. Dewey riuscì nel suo intento di produrre un cambiamento distaccandosi dal concetto tradizionale di pedagogia dove l’insegnante aveva il compito maestro di trasmettere le conoscenze e l’allievo di apprendere passivamente e con cieca obbedienza pedagogica.
L’attivismo pedagogico ribalta il paradigma della didattica perché, fino alle idee di Dewey, educare un bambino doveva significare renderlo un piccolo adulto e non tenere conto della sua personalità in divenire. Il bambino non doveva essere stimolato ad esprimersi o a fiorire secondo il proprio modo di essere ma andava copiato e incollato al modello sociale e politico dell’epoca per farne un adulto modello.
Le idee di Dewey erano però tutte frutto delle idee di un altro maestro della pedagogia tedesca a cui dobbiamo l’odierna versione della scuola dell’infanzia: lasciare al bambino la possibilità di scoprire se stesso e il mondo attraverso il gioco.
Fu proprio sul modello dei Giardini d’infanzia di Friedrich Froebel che Dewey alla fine dell’ottocento fondò a Chicago la prima scuola elementare fondata sull’attivismo pedagogico. Anche grazie ai concetti di Dewey Maria Montessori edificherà di li a poco il sistema educativo basato sull’autonomia dell’apprendimento del bambino e sull’incondizionata considerazione del suo sviluppo psicologico, sociale e fisico da zero a diciotto anni.
La nascita dell’outdoor education
I concetti di Dewey vengono ripresi per un nuovo orientamento pedagogico che si sviluppa nel Nord Europa negli anni Ottanta, mischiandosi agli studi dello psicologo David Colb sull’apprendimento esperienziale, per dare luogo alla cosiddetta Outdoor Education, educazione “Fuori dalla porta” o ordinariamente conosciuta come la scuola nel bosco.
L’educazione all’aria aperta, la conoscenza attraverso l’esperienza diretta degli stimoli che provengono dai materiali della natura, un setting non strutturato ma ambientato all’aperto e alla precarietà della stagione in cui si svolge, sono gli elementi in controtendenza con cui tante realtà pedagogiche stanno nascendo in diverse realtà urbane.
Basta un parco, un bosco e il comune interesse del bambino per metter insieme un modello didattico semplice ma ricco di possibilità, dove la natura è l’insegnante e l’insegnante è un facilitatore tra la naturale curiosità, immaginazione e autonomia del bambino e gli stimoli che la vita reale gli offre.
A Roma, nel quartiere Nuovo Salario, esiste da diversi anni un progetto di educazione che rappresenta una evoluzione ulteriore dell’outdoor education. Abbiamo chiesto ad Ilaria Pelati, pedagogista e cofondatrice dell’associazione A.S.D. Gorilla, quale è la visione pedagogica di questo progetto?
Il Progetto nasce dalla volontà di offrire un’esperienza educativa a bambini dai 3 ai 10 anni, che permetta loro di apprendere attraverso l’esperienza diretta della vita e crescere in un ambiente in cui sia centrale la libertà di essere se stessi. In questo percorso i bambini saranno accompagnati in un cammino che li aiuterà a conquistare la capacità di scegliere liberamente come, quando, che cosa, dove, con chi e attraverso cosa imparare.
Una visione, quella dell’educazione libertaria, legata all’outdoor education. In che modo i due concetti si incontrano in questo progetto?
Tale visione è in sinergia con i principi dell’outdoor education, un’educazione all’aria aperta che viene vissuta in un contesto in cui la natura, così come la città, diventa maestra e strumento di apprendimento privilegiato. È in questo modo che intendiamo restituire all’ambiente, al quartiere, alle persone, e quindi alla città il suo ruolo educante. Offrire ai bambini la possibilità di vivere all’aria aperta significa donare loro infinite occasioni educative poiché ognuna di esse rappresenta un grande veicolo di conoscenza, significa dargli la possibilità di imparare facendo, imparare dall’esperienza.
Come si pone l’educatore in questo contesto?
Uno degli obiettivi del progetto è quello di creare, insieme ai bambini, una dimensione non come educazione ma come autoeducazione. Questo termine pone il focus sulla libera espressione di sé stessi, della propria personalità piuttosto che sulla trasmissione di conoscenze e imposizione di atteggiamenti. Di conseguenza tra la figura dell’educatore e quella del bambino si delineano dei confini molto labili e interscambiabili che vedono l’adulto come facilitatore, all’interno del percorso autoeducante del bambino. Intraprendendo questo cammino è così offerta ad ogni bambino la possibilità di riappropriarsi della propria infanzia, di vedere valorizzate quelle competenze e quei talenti che gli appartengono naturalmente.
E le famiglie come partecipano al progetto?
In un percorso di questo tipo risulta imprescindibile e fondamentale il rapporto con le famiglie che, a partire da una scelta importante, si trovano a confronto con paure, dubbi, aspettative, ma anche con le proprie convinzioni ed emozioni, essendo sempre guidate dal forte desiderio di offrire ai propri figli l’ambiente che considerano più adatto alle loro esigenze. Una scelta, quindi, nella quale è implicita la necessità di partecipazione ed interesse, la fiducia nei confronti delle figure degli accompagnatori, la disponibilità al dialogo, l’impegno affinché i bambini possano percepire una linearità e una coerenza tra ciò che si respira nell’ambiente domestico e ciò che si vive nelle ore “scolastiche” che non sono più quindi intese come una delega rispetto all’educazione, ma che al contrario presuppongono da parte di tutti gli adulti (accompagnatori e genitori), un cammino e un approccio pedagogico condiviso e affiatato.
Foto: Pixabay