“Oltre e un cielo in più” di Luca Sciortino, un intenso racconto di un viaggio di 10mila km senza utilizzare gli aerei
“Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?”. Lo scrive Bruce Chatwin nel febbraio del 1969, convinto che “cambiare sia l’unica cosa per cui vale la pena di vivere”. Sta per dare inizio all’idea dell'”alternativa nomade” in cui è racchiuso il suo destino dopo aver abbandonato Sotheby’s e gli studi di archeologia.
Da questo momento in poi Chatwin si consacrerà al viaggio e alla scrittura, stelle polari della sua vita. Un po’ come accade a Luca Sciortino, giornalista, scrittore, viaggiatore e ricercatore in Filosofia della scienza. Il suo ultimo volume “Oltre e un cielo in più” (Sperling & Kupfer, pp. 237, € 16,90) parla di questa “alternativa nomade”, di questa “anatomia dell’irrequietezza” che si è concretizzata in un viaggio di 10.000 km da Occidente a Oriente, dalla Scozia sino al Giappone.
Ricco di fotografie e di preziosi suggerimenti, il libro spiega i molti perché del “viaggiatore” e ci aiuta a sognare. Pensando ancora di poter esplorare un mondo in cui la diversità dei panorami e dei popoli è ricchezza e l’omologazione non prevale. In questa intervista Luca ci spiega il senso del sogno e di un simile viaggio. Per andare “Oltre e un cielo in più”.
“Oltre e un cielo in più” è un libro che parla di un percorso di 10mila km senza aerei, un approccio inusuale al viaggio. Un invito a tornare viaggiatori prima di essere turisti?
Il mio libro è sicuramente anche questo: un tentativo di mostrare il vero senso del viaggio nell’epoca del turismo di massa. Infatti, non è solo un racconto di un lungo peregrinare da Occidente verso Oriente ma anche una riflessione sul senso del viaggio. Ho deciso di partire da un giorno all’altro, senza un piano preciso, ed ho utilizzato tutti i mezzi possibili, eccetto l’aereo, per raggiungere il Giappone partendo dalla Scozia. Fin dalla partenza, il mio obiettivo era costruire il mio cammino viaggiando. Così ora posso dire che la traiettoria finale del mio peregrinare non è il frutto di un piano studiato a tavolino, ma di diversi fattori, alcuni contingenti, per esempio la voglia di conoscere un luogo ben preciso, una difficoltà incontrata sulla via, il consiglio di una persona incontrata per caso. Il mio libro invita a ritrovare questo modo di viaggiare, che somiglia a un “errare”. Questo verbo contiene, nella sua accezione latina, il senso di “sbagliare”, perché viaggiare è anche un mettersi in gioco tentando di trovare la via e aprendosi all'”errore”, costruendo così esperienza e conoscenza. E aprendosi anche alla scoperta inaspettata.
Perché a 47 anni, quell’improvvisa voglia di essere altrove?
Esistono periodi della vita nei quali si sente il bisogno di mettersi in cammino senza alcuna preparazione. Credo che un’esperienza simile debba appartenere alla vita di tutti, e non importa a quale età. Essere altrove è un desiderio che tutti prima o poi provano nella propria vita: siamo una specie di migranti. Solo che pochi hanno la forza o il coraggio o il tempo, o forse tutte queste cose, per farlo. Il mio libro suggerisce che spesso non siamo felici perché non abbiamo abbastanza coraggio per metterci in marcia.
Come hai effettuato i tuoi spostamenti e quanto è durato il viaggio? Quando sei partito esattamente ?
Il viaggio è durato 4 mesi e sono partito il 15 luglio 2016. Ogni giorno trovavo il modo per andare avanti: ho usato tutto il possibile, da vecchi treni ad autobus, da passaggi in auto a quelli di autotrasportatori. Una volta arrivato a Budapest, ho attraversato l’Ungheria e l’Ucraina fino a Kiev e da lì ho raggiunto la città di Hlukhiv, quasi al confine con la Russia. A quel punto sono entrato in quella fascia del territorio russo a nord del Mar Caspio che s’incunea tra il Kazakhstan e l’Ucraina, e l’ho attraversata fino a Saratov. Passato il fiume Volga, ho percorso il Kazakhstan in tutta la sua lunghezza fino a raggiungere le montagne del Tien Shan, che separano quel paese dalla Cina. Da lì sono risalito a nord verso Novosibirsk e Irkutsk per poi ridiscendere verso Pechino tagliando in due la Mongolia. Da Pechino mi sono spinto fino alle regioni a sud della Cina come il Guangxi, per poi andare a nord-est verso Shanghai e infine imbarcarmi per Osaka, in Giappone, e arrivare infine a Tokyo, la meta tanto agognata.
Come sei tornato dopo questo viaggio, in cosa ti ha trasformato e cosa ha saputo darti? Qual’è la tua nuova direzione?
Nel viaggio ho visto cambiare volti, anime, paesaggi. Ho dovuto mettermi in prospettive diverse, quelle di culture differenti dalla mia che devono adattarsi ad ambienti diversi da quelli in cui sono nato io. Così il viaggio mi ha reso più consapevole delle diverse prospettive dalle quali guardare il mondo. Spero quindi che, come conseguenza, mi abbia reso più tollerante, più capace dimettermi nel punto di vista degli altri. Naturalmente, il viaggio mi ha regalato anche la bellezza dei luoghi e mi ha reso sempre più consapevole che dobbiamo difendere la natura da tutti coloro che vogliono arricchirsi distruggendola. La mia direzione resta il viaggio. Che io intendo in tre forme: viaggiare nello spazio e nelle culture, viaggiare con i libri, viaggiare dentro un’altra persona. A seconda delle circostanze cerco di fare in modo di poter viaggiare in tutte o in almeno una di queste tre forme.
Ho trovato molto interessanti i capitoli 11 e 12, Galia e Il Monaco buddista: raccontaci questi due incontri
Premetto che chi legge “Oltre e un cielo in più” (Sperling & Kupfer) viaggia con me da Occidente e Oriente, parla con i personaggi nei quali mi sono imbattuto, vede i paesaggi che ho visto. Galia è una ragazza siberiana che ho incontrato nell’isola di Olkhon, sul lago Baikal, in Siberia. Il monaco buddista viveva a Ulanbator, la capitale della Mongolia, in un monastero che ho visitato. Sono due personaggi che hanno toccato corde diverse del mio essere. Il libro racconta come e perché.
Tu parli di paesaggi umani e paesaggi naturali quali ti hanno segnato di più, degli uni e degli altri
La bellezza dei paesaggi naturali mi ha aiutato ad andare avanti quando ero sfinito, a sentirmi a casa anche quando ero straniero. Ho capito quanto la bellezza ci aiuti a stare bene con noi stessi. Nelle nostre città l’abbiamo esclusa e le conseguenze sono la depressione e lo sconforto. I paesaggi umani mi hanno segnato in una maniera differente. Ho trovato bellezza nella povertà e nello squallore, dai campi profughi ai quartieri degradati delle città asiatiche. Al contrario, le grandi aree ricche delle metropoli frequentate dai manager e gli uomini d’affari sono tutte uguali, come sterilizzate da tutto ciò che è profondamente umano.
Perchè decidere di partire dall’isola di Skye per arrivare in Asia, cosa stavi cercando
Ero lì per una breve vacanza dalla vita accademica. A quel tempo ero ricercatore in filosofia all’università di Leeds, quasi al termine del mio periodo di lavoro come research fellow. Ho sentito che volevo andare e che potevo farlo. Ho trovato il coraggio e mi sono messo in cammino.
Ci racconti anche quali sono i rischi di un viaggio del genere, come organizzarsi insomma. Perchè parli di paure in Mongolia e di aspetti molto brutali del mondo contadino in Cina?
Ho trovato l’Asia molto meno rischiosa dell’Europa. Quest’ultima è un continente piuttosto nervoso agli occhi del viandante. Credo che la ragione sia la paura degli immigrati ma anche l’incapacità di sostenere economicamente un certo tenore di vita. Paradossalmente, attraversando la steppa kazaka e mongola, dove si vive nelle iurte e non esistono quasi i servizi igienici, c’è una maggiore propensione ad aiutare e conoscere lo straniero. In un viaggio del genere i rischi riguardano i furti e i problemi di salute, sempre in agguato. Il mio libro racconta anche questo.
Quali sono gli scrittori e le figure che ti hanno ispirato nel viaggiare e nello scrivere?
Sicuramente in “Oltre e un cielo in più” c’è l’eco di Bruce Chatwin, con la sua idea che mettersi in viaggio è curativo, è un bisogno che portiamo dentro in quanto membri della specie Homo sapiens. Ma forse nel libro sono presenti implicitamente altri grandi scrittori, dopotutto ero un filosofo in viaggio. Penso che i veri viaggiatori non siano quelli che hanno compiuto grandi imprese agonistiche, ma quelli capaci di capire lo spirito di una cultura da pochi particolari. Il viaggiatore è un uomo che passa: diventa quindi indispensabile saper interpretare i pochi segni significativi che incontra sulla via. Goethe è stato un grande viaggiatore in questo senso. Il suo Viaggio in Italia è anche un invito a viaggiare nel nostro Paese, e in particolare in Sicilia, che per lui era il centro del mondo, la summa di molte culture.
E ora dove vorresti essere? Sempre altrove? I tuoi prossimi progetti “Oltre e un cielo in più”?
Ho appena effettuato un lungo viaggio in Islanda che mi ha suggerito molte idee ancora da elaborare. Certamente, le circostanze di Oltre e un cielo in più, prima della mia partenza quasi improvvisa dall’isola di Skye in Scozia, erano particolari e forse resteranno uniche nella mia vita. Se mai dovessero ricrearsi, andrei dalla Colombia al sud del Cile attraversando la Patagonia fino a Punta Arenas, la cittadina di una certa grandezza più a sud di tutto il mondo. E racconterei tutto in un libro.