L’articolo 43 della nostra Costituzione permette allo Stato di intervenire in maniera netta nei gangli strategici del sistema produttivo. Andare oltre i “temporeggiatori” per il bene di famiglie e imprese
Dove ci hanno condotto le privatizzazioni? Non sarebbe il caso di tornare a pensare, vista la crisi energetica in atto, all’emeblematica frase “più Stato e meno mercato?“. Lo ricordiamo in molti: nel 1992 il governo Amato, su pressione di Mario Draghi, fecero quello che sappiamo con Ina, Enel, Iri, Enel, Eni e altre mille aziende di Stato.
Con le privatizzazioni del 1992, una strategia del fare cassa senza programmazione del futuro, un po’ come se una famiglia vendesse quello che ha per tappare temporaneamente falle aperte nel proprio sistema, si sono immessi nel mercato beni essenziali per lasciarne fare “carne di porco” alle speculazioni. Mi pare di poter dire che i risultati siano evidenti. Non abbassamento dei prezzi ma ulteriori profitti per ” i soliti noti”.
Energia, il perché di un cambio di rotta
A mio avviso, è dunque necessario un deciso dietro front. Invertire la rotta e nazionalizzare le nostre aziende strategiche, si, diciamolo pure chiaramente, tornando al passato. Anche la Francia sta muovendo in questa direzione con Edf. D’altra parte, la nostra amata Costituzione, buona solo in campagna elettorale per farne l’abitino delle feste per chi va a vendere alla sagra di paese, consente allo Stato di intervenire in maniera concreta (diciamo anche autoritaria, come fece sempre il governo Amato con i nostri conti correnti bancari) nel sistema produttivo. In situazioni di crisi (e questa lo è), lo Stato può decidere di perseguire il bene comune e, appunto, stante l’attualità, imporre prezzi di energia calmierati.
Anche a livello europeo, per tranquillizzare gli oltranzisti di mamma UE, è possibile “nazionalizzare”. Come accade nei rapporti tra diritto interno e diritto europeo, l’intervento dello Stato è oggetto di sindacato “nella corrispondenza agli obiettivi prefigurati e da perseguire nei suoi limiti e nelle garanzie comunque da assicurare”. Questo significa che è possibile esercitare la facoltà di recesso dall’Unione europea, ex art. 50 Tue (Conformemente all’art. 50, par. 3, TUE, i Trattati dell’Unione cessano di essere applicabili allo Stato uscente a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica al Consiglio europeo dell’intenzione di recedere). Invece siamo ancora fermi.
Dal governo, scarsi risultati
Il governo si è limitato a indirizzare i players energetici (di cui lo Stato possiede ancora piccole quote) senza ottenere risultati. Vero è che ad Eni è stato chiesto di garantire ulteriori forniture di gas, veri sono gli accordi con Algeria, Congo e Angola ma tutto ciò sembra ancora non essere sufficiente a garantire il fabbisogno nazionale (vedi razionamento).
La Snam, per contro, controlla i gasdotti in Italia ed è stata coinvolta nell’acquisto di un rigassificatore che dovrà, guarda caso, assorbire gas liquefatto dall’America. Il che ci costerà il 50% in più di quello sinora acquistato dalla Russia. Ora una domanda, è lecito porsela, e un suggerimento: se la guerra in Ucraina fosse lo specchietto per legarci ancora di più all’America e foraggiare “l’American way of life?”. Il suggerimento al nuovo governo: di fare presto e di non dare, ancora una volta, l’idea gattopardesca: “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima”. Senza trascurare la necessità di infrastrutture che abbinate alle rinnovabili potranno garantire concretamente il fabbisogno nazionale. Altrimenti, continueremo a cullarci in una improbabile “new age” dell’economia.
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