Alcuni pensano che regali un potere rassicurante, altri la vedono un po’ matrigna avendone quasi timore: ma che rapporto c’è tra Uomo e Natura?
Cerca di capirlo l’ecologia affettiva, una recente disciplina scientifica che ci può dire tanto tra le relazioni e i sentimenti che noi animali-umani abbiamo con tutte le altre specie di cui il nostro pianeta è ancora ricco. GPNews ha chiesto di capirne di più a Giuseppe Barbiero, docente di Biologia e di Ecopsicologia e direttore del Laboratorio di Ecologia Affettiva (Leaf) all’Università della Valle d’Aosta.
Che cos’è l’ecologia affettiva, professore?
Un nuovo ambito di ricerca scientifica al confine tra biologia e psicologia. ‘Ecologia’ perché l’ecologia è la branca della biologia che si occupa delle relazioni tra le creature viventi e l’ambiente circostante; ‘affettiva’ perché all’interno di queste relazioni ci interessa in modo particolare il legame emotivo che lega l’Uomo alla Natura, e questo legame è di pertinenza della psicologia.
Che differenza c’è tra ecologia affettiva e biofilia?
La biofilia è la tendenza umana innata a concentrare la propria attenzione sulle forme di vita e ad affiliarvisi emotivamente in determinate circostanze. La biofilia è uno dei temi di ricerca dell’ecologia affettiva.
La Natura affascina ma fa anche paura: perché?
Perché il nostro rapporto con la Natura è ambiguo. Percepiamo la Natura come madre e matrigna al tempo stesso, il che alimenta sentimenti sia biofilici sia biofobici. Dobbiamo andare indietro nel tempo per comprendere l’origine di questa ambiguità. Dalla sua comparsa sul pianeta, l’Homo sapiens ha trascorso il 95% del tempo evolutivo nella Natura selvatica, con due obiettivi: cercare risorse e cercare un rifugio. Spesso questa ricerca era dura e difficile, perché esponeva al rischio di infortuni o di essere predati. Così nella nostra memoria genetica è rimasta un’impronta biofobica, di paura della Natura.
Un legame di amore/odio lontano nel tempo (dell’umanità)?
Sì, il legame di amore/odio con la Natura selvatica si è strutturato molto lontano nel tempo. Abbiamo un’intera branca del sistema nervoso vegetativo, il sistema nervoso simpatico, deputato a tenerci pronti ad affrontare le emergenze, con un meccanismo chiamato fight or flight (combatti o vola via, fuggi). Tuttavia, la vita nella Natura selvatica non è sempre ‘combatti o fuggi’. Ha anche lunghi momenti di recupero e di gioia. Così, abbiamo un’intera seconda branca del sistema nervoso vegetativo, il sistema nervoso parasimpatico, deputato a rilassarci, con un meccanismo chiamato rest and digest (riposa e digerisci). L’emozione di amore/odio che ci dà la Natura è una conseguenza delle dinamiche tra sistema nervoso simpatico e sistema nervoso parasimpatico, tra adrenalina e relax.
Noi umani sentiamo di avere BISOGNO della Natura?
È un bisogno biologico, prima ancora che psicologico. In questo momento storico, dove la maggior parte delle persone vive in ambienti urbani stressanti, sentiamo il bisogno di rilassarci. E la Natura offre ambienti rilassanti che nutrono la nostra biofilia. Ma la Natura può offrirci anche situazioni adrenaliniche.
L’Uomo è attratto dalla Natura da lui stesso addomesticata o da quella selvaggia?
Una precisazione linguistica, prima di rispondere. Nella lingua inglese c’è una netta distinzione tra wild (selvatico) e savage (selvaggio). La Natura è wild, selvatica. La Natura savage, selvaggia, non esiste. Siamo noi ad averla inventata in certe condizioni, per esempio creando ambienti artificiali innaturali e stressanti per gli animali selvatici, che possono così diventare selvaggi. La distinzione tra Natura selvatica e Natura domestica invece è relativamente recente e risale all’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, che segnò l’inizio del Neolitico, appena 15.000 anni fa. Noi in realtà siamo più profondamente legati alla Natura selvatica, perché ci abbiamo convissuto per molto più tempo, almeno 285mila anni.
Oggi è ancora possibile avere un equilibrato contatto con la Natura e realizzare l’ecologia affettiva?
Certamente! Gli psicologi ambientali come la mia collega Rita Berto, coautrice con me del libro ‘Introduzione alla biofilia’ (Carocci, 2016), ci spiegano che il contatto con la Natura può essere diretto, indiretto o simbolico. Il contatto diretto consiste nell’immergersi in un ambiente naturale, che può essere selvatico (wilderness) oppure conservato, come il Parco Naturale del Gran Paradiso per esempio, dove le creature selvatiche sono comunque libere. Il contatto indiretto consiste nella visita di luoghi dove gli animali sono confinati in ambienti costruiti dall’uomo, per esempio uno zoo o un acquario. Infine, il contatto simbolico consiste nella lettura di libri o nella visione di film che hanno come argomento la Natura. Tutti e tre questi contatti hanno un loro valore, ma la capacità rigenerative della Natura si manifesta soprattutto con il contatto diretto.
L’ecologia affettiva insegna che la natura è uguale a benessere. Ma come si fa se si vive in una città caotica dove di green ce n’è poco (o è ‘maltrattato’)?
Non è obbligatorio per una città avere poco verde. Se si comprende la relazione diretta tra qualità naturali e biofiliche dell’ambiente cittadino e benessere dei suoi abitanti, si possono riprogettare le città. Ovunque nel mondo si stanno realizzando sperimentazioni molto spinte e innovative, come ad esempio il Liuzhou Forest City in Cina, progettato da Stefano Boeri.
Con la mia collega Bettina Bolten del Laboratorio di Ecologia Affettiva dell’Università della Valle d’Aosta stiamo lavorando ai fondamenti di un’idea globale di progettazione biofilica (biophilic design), che può essere utile anche a questo scopo.
Cosa fare, come comportarci quando siamo in un parco o in un bosco o anche solo in un prato?
Il comportamento non dovrebbe essere diverso da quello che abbiamo quando siamo ospiti in casa altrui. Si tratta di buona educazione. I norvegesi hanno uno specifico vocabolo per indicare una buona educazione con la Natura: frilutsliv. Per prima cosa quindi è necessario essere consapevoli della nostra natura di ospiti del parco, del bosco o del prato. E avere cura di lasciare meno tracce possibili del nostro passaggio.
Dovremmo cercare di scoprire piante e animali o semplicemente abbandonarci alla loro esistenza/presenza?
È sufficiente immergersi nella Natura. Si può trascorre il tempo cercando piante e animali, possibilmente arrecando il minor disturbo possibile. Oppure si può anche decidere di non fare nulla. Rest and digest, semplicemente. Come del resto facevano i nostri antenati nel Paleolitico, che trascorrevano riposando la gran parte della loro giornata.
Perché tante persone sono attratte dagli alberi?
Perché l’albero è un archetipo. È qualcosa che è profondamente legato alla nostra psiche. Nel corso dei millenni lo abbiamo contemplato a lungo. Ne abbiamo ammirato la stabilità fondata sulle solide radici. Ne abbiamo ammirato la fierezza fondata sulla verticalità del fusto. Ne abbiamo ammirato la generosità per i frutti e per il dono dell’ossigeno. Ne abbiamo ammirato la capacità di offrire riparo con la sua chioma, persino ai taglialegna. Ne abbiamo ammirato la pazienza nell’affrontare e resistere alle tempeste, senza la possibilità di fuggire e ripararsi come fanno gli animali. Ne abbiamo ammirato la gioia di vivere quando esplode con i suoi fiori colorati. Ne abbiamo ammirato la saggezza quando genera il seme che deve scomparire sottoterra prima di risorgere ancora. L’albero è un maestro su come ci si deve rapportare con Gaia, la Madre Terra. C’è bisogno d’altro?
Una piccola nota suggerita da Giuseppe Barbiero e accettata di buon grado dalla redazione. Nel testo ‘Uomo’ è scritto con la ‘U’ maiuscola , per indicare l’umanità e ‘uomo’ con la ‘u’ minuscola per indicare il genere maschile. “So che è un po’ desueto, ma è l’unico modo per evitare confusioni tra genere maschile e l’intera umanità, che nell’ecologia affettiva ricorre spesso”, puntualizza il professore.