Un mondo di frontiera, tra turismo, vite estreme e nuove sfide.
Si intitola “Alta Quota” il film-documentario che tre registi italiani – Fabio Mancari, Giacomo Piumatti e Stefano Scarafia – stanno girando in diverse location dell’arco alpino, per raccontare le vite di chi gestisce i rifugi in montagna e per mostrare gli effetti della crisi climatica in alta montagna: un mondo di frontiera, tra turismo, vite estreme e nuove sfide.
Il video teaser che presenta “Alta Quota” si apre con una frase di impatto:
“Le Alpi si stanno sgretolando a causa della crisi climatica. Le conseguenze dell’aumento delle temperature sono ovunque sotto gli occhi di tutti, ma le montagne si stanno surriscaldando a velocità doppia rispetto al resto: per questo, in alta quota, l’impatto risulta ancora più devastante. I ghiacciai stanno sparendo, il permafrost si scioglie… vivere lì diventa sempre più estremo”.
Le sfide ambientali, e non solo, dei rifugisti
Con il film viene mostrata la situazione odierna e le condizioni di vita in alta montagna, partendo dal punto di vista – cinematograficamente inedito – di chi gestisce rifugi oltre i tremila metri di altitudine: i “rifugisti”.
Donne e uomini alle prese ogni giorno con nuove sfide: da quelle ambientali e logistiche fino alla gestione delle diverse tipologie di turismo che si sovrappongono in quota, con differenti necessità e visioni.
“Si tratta di un documentario dal taglio osservativo autoriale, che affronta il tema della montagna mettendone in luce alcuni aspetti-chiave, a partire dagli effetti del cambiamento climatico” – spiegano i registi.
“L’idea è di raccontare, senza pregiudizi, uno spaccato di questo mondo di frontiera tra uomo e natura, con le connessioni tra chi vive in alta quota, a volte in condizioni estreme, chi fa dell’alpinismo una ragione di vita e chi frequenta questi territori anche in modo occasionale e, a volte, più inconsapevole. Un mondo dove tradizione e modernità vengono a contatto e spesso si scontrano”.
Alta Quota: le storie
Con “Alta Quota” si parla di quattro rifugi – in Italia, Francia e Svizzera – e di chi li gestisce, due donne e due uomini (e una bambina): professionisti dell’ospitalità montana, al servizio di alpinisti esperti e di turisti avventurosi:
Sandrine, trentacinque anni, gestisce un rifugio sul ghiacciaio della Meije, in Francia, remoto e quasi inaccessibile, senza acqua corrente, spesso completamente sepolto dalla neve.
Armando, guida alpina e manager, supervisiona una struttura con 150 posti e dieci dipendenti sul Monte Bianco, da dove alpinisti esperti intraprendono le loro spedizioni verso vette che hanno fatto la storia dell’alpinismo mondiale. Ma il rifugio è anche accessibile a famiglie portate da una avveniristica cabinovia, direttamente sul ghiacciaio più grosso d’Europa.
Venturino, una leggenda dell’arrampicata, mantiene una capanna a rischio chiusura, incastrata nella zona più impegnativa delle Dolomiti, insieme a Sofia, sua figlia di nove anni, alla quale sta insegnando il mestiere.
Daniela insieme con Ulrich, architetto ed esperto di clima, e Roni, il capo cantiere, sovraintende al cantiere del Rothornhütte in Svizzera, un rifugio che deve essere abbattuto e ricostruito a causa dello scioglimento del permafrost su cui sorge.
Si tratta di persone che si trovano ad affrontare una natura potente, a volte ostile e oggi sempre più minacciata dal Climate Change. Si parla di un ambiente in cui la sopravvivenza dipende, oggi più che mai, dalla loro capacità di adattarsi alle condizioni climatiche e al territorio.
“Salvo rare eccezioni, finora l’alta montagna è stata raccontata, tanto nel cinema quanto nella letteratura, attraverso grandi imprese, avventure mitiche o sfide estreme di alpinisti eroici” – proseguono Mancari, Piumatti e Scarafia.
“Nel nostro film, di eroi, non ce ne sono. Il punto di vista è quello di personaggi da sempre ai margini di quest’epica: i rifugisti. Anello di congiunzione tra gli eterogenei frequentatori di un mondo in bilico tra l’immaginario romantico di un tempo, quando le Alpi sembravano eterne e immutabili, da esplorare e conquistare con sacrificio e a sprezzo della vita, e la realtà di oggi, turistica e pop, in cui da scoprire è rimasto poco o niente, e che rappresenta un importante indotto economico a cui è difficile rinunciare. I nostri protagonisti sono persone normali che gestiscono situazioni straordinarie, tentando ostinatamente di mandare avanti le loro vite e le loro attività, confrontandosi con i propri limiti e le proprie (e altrui) ambizioni. Il tutto in un luogo pieno di conflitti estetici e narrativi, che gli si sta letteralmente sfaldando intorno, tra ghiacciai che scompaiono, interi pendii che si sgretolano e rifugi che crollano”.
Per questo “Alta Quota” è un documentario che fotografa un mondo destinato a mutare inesorabilmente e che necessita – urgentemente – di un cambio di paradigma da parte di chi lo frequenta e di chi ci lavora. Un documentario che racconta il presente (in qualche modo forse già la memoria), ma parla anche di futuro.
Alta Quota: il contesto
A quasi quattromila metri di altitudine, dove la temperatura scende a trenta gradi sotto lo zero, pochi uomini e donne vivono e lavorano nei loro rifugi, ultimi avamposti prima della natura estrema. Sotto, ci sono città e fabbriche, uffici e routine. Sopra, il cielo e le vette, il desiderio di libertà e di conquista. In mezzo, loro: i rifugisti.
Lassù, i beni e i servizi che diamo per scontati assumono un altro peso. Primo fra tutti: l’acqua. La sua captazione difatti richiede la presenza di un nevaio, spesso a chilometri dal rifugio, da collegare con tubi saldati l’uno con l’altro. Il freddo estremo li ghiaccia anche in estate e l’umidità li danneggia: per questo è necessaria una manutenzione continua.
Anche l’approvvigionamento del cibo richiede un enorme sforzo economico: chi ha la fortuna di avere impianti di risalita adiacenti riesce a risparmiare qualcosa, ma chi è isolato, a ore di cammino dalla valle, ha bisogno dell’elicottero per portare casse di viveri e altro materiale fino al rifugio, e paga migliaia di euro a ogni rifornimento.
Lo smaltimento dei rifiuti e delle acque reflue, la manutenzione continua delle strutture, sono solo alcune delle difficoltà che un rifugista deve fronteggiare quotidianamente in un ambiente dove le avversità meteo e ambientali sono estremamente violente e la scarsità d’ossigeno mette a dura prova il fisico dei clienti, dello staff e dei rifugisti stessi.
Azioni quotidiane che in montagna diventano anormali e che accomunano, come una sorta di filo conduttore, i rifugisti. Donne e uomini, differenti tra loro, rappresentanti di un microcosmo che passa inosservato alla vista di chi vive la frenesia della pianura.
L’alta quota non è solamente una cornice geografica ma un vero e proprio mondo che i rifugisti hanno imparato ad abitare, accettandone pregi e difetti. Una realtà sulla quale incombe la minaccia del cambiamento climatico che sta alterando equilibri, ambiente e vite di chi ci abita per gran parte dell’anno.
“Alta Quota” (Italia – Francia, 80’, colore, in lavorazione) è prodotto da Stuffilm, Pulp Films e L’Eubage; ha già ricevuto il contributo allo sviluppo da parte della Film Commission Torino Piemonte e il sostegno alla produzione da parte della Film Commission Valle d’Aosta.
Il documentario è inoltre sostenuto dal Club Alpino Svizzero e dal Club Alpino Francese, che ne garantiscono la distribuzione capillare nei rispettivi territori nazionali, con un pubblico potenziale di centinaia di migliaia di soci interessati ai temi del film.
I registi hanno una vasta esperienza nella realizzazione di documentari di montagna e hanno partecipato a importanti Festival internazionali (Berlinale, Locarno, Trento Film Festival, Pakistan International Mountain Film Festival, Cinemambiente e Cervino Mountain Film Festival).
I loro film sono stati trasmessi in televisione (Sky e Rai), proiettati nei cinema italiani e sono disponibili in streaming su piattaforme come Amazon Prime Video, Netflix e Rakuten Tv.
Rispetto al tema del cambiamento climatico in montagna è inoltre prevista una prestigiosa collaborazione con Ice Memory, iniziativa scientifica internazionale riconosciuta dall’UNESCO, e in particolare con i co-fondatori italiani della Fondazione Ice Memory: l’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Università Ca’ Foscari Venezia.
Ice Memory si pone l’obiettivo di raccogliere e conservare campioni prelevati dai ghiacciai di tutto il mondo che potrebbero scomparire o ridursi a causa del riscaldamento globale, per metterli a disposizione delle future generazioni di scienziati le cui attività rientreranno anche nella narrazione del documentario.
Una risposta