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Incendi in Australia: che cosa sta succedendo? Il commento dello scienziato Giorgio Vacchiano

Incendi in Australia: che cosa sta succedendo? Il commento dello scienziato Giorgio Vacchiano
Foto di Ylvers da Pixabay

L’Australia brucia ininterrottamente da quattro mesi, in un vortice di fiamme e di roghi che non sembra aver fine. Siamo di fronte a un quadro disastroso che, oltre ad aver causato il decesso di almeno 28 cittadini, ha provocato la distruzione di milioni di ettari di territorio e la perdita di un numero ancora non ben quantificato di animali. In un recente comunicato, il WWF ha parlato di oltre 1 miliardo e 250 milioni di esemplari che potrebbero essere stati uccisi direttamente o indirettamente dagli inarrestabili incendi. Una vera ecatombe.

A livello globale, gli occhi dell’opinione pubblica sono puntati su quella che può essere ormai definita una tragedia ambientale. In rete fioriscono i commenti, le critiche e le accuse mosse in primo luogo al negazionismo climatico sostenuto dall’attuale governo australiano. Un susseguirsi di ipotesi e di informazioni non sempre fondate che spesso sconfinano nel baratro delle fake news.

Ma cosa sta accadendo realmente in Australia? Quali sono le cause degli incendi e quale il ruolo occupato dai cambiamenti climatici nel progredire dei roghi? In un accurato post pubblicato nei giorni scorsi su Facebook, Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano nonché membro della SISEF (Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale), ha fornito una spiegazione scientifica sul devastante disastro ambientale che sta divorando l’Australia.

Scopriamo i vari passaggi del suo dettagliato intervento.

Quanto territorio è in fiamme?

Nella sua analisi lo scienziato parte dalla quantità di ettari che sono stati interessati dalle fiamme. Come spiega Vacchiano: “Gli incendi hanno percorso da ottobre a oggi circa 8 milioni di ettari di territorio tra New South Wales, Victoria, Sud Australia e Queensland – una superficie doppia a quella degli incendi del 2019 in Siberia e in Amazzonia combinati, e pari ai quattro quinti di tutte le foreste italiane.

Tra gli aspetti inediti del disastro, – prosegue il ricercatore, vi è “la simultaneità dei fuochi su territori enormi, che che di solito si alternano nell’essere soggetti a incendi. E non siamo che all’inizio dell’estate (le stagioni in Australia sono spostate di sei mesi rispetto alle nostre, quindi ora è come se fosse l’inizio di luglio), perciò queste cifre saliranno ancora, potenzialmente fino a 15 milioni di ettari percorsi dal fuoco. L’Australia è grande 769 milioni di ettari, quindi non possiamo dire che stia “bruciando un continente”. Inoltre, nelle savane del centro-nord bruciano in media 38 milioni di ettari di praterie (il 20% del totale) ogni anno nella stagione secca, che in quella parte di Paese è aprile-novembre. Ma si tratta di un ecosistema completamente diverso da quello che ora è in fiamme”.

Quale vegetazione sta bruciando?

Vacchiano focalizza successivamente l’attenzione sul tipo di vegetazione che sta andando in fumo, sottolineando che “si tratta soprattutto di foreste di eucalipto e del ‘bush’, una savana semi arida con alberi bassi, fitti o sparsi, fatta soprattutto di erbe e arbusti e simile alla macchia mediterranea. Si tratta di una vegetazione che è nata per bruciare: il clima dell’Australia centrale è stato molto arido negli ultimi 100 milioni di anni (da quando l’Australia ha compiuto il suo viaggio dall’Antartide alla posizione che occupa attualmente), e gli incendi causati dai fulmini sono stati così frequenti da costringere le piante a evolversi per superarli nel migliore dei modi: lasciarsi bruciare! Il fuoco infatti” – continua lo scienziato – “se da un lato distrugge la vegetazione esistente, dall’altro apre nuovi spazi perché le piante si possano riprodurre e rinnovare. Molte specie del bush contengono oli e resine molto infiammabili, in modo da bruciare per bene e con fiamme molto intense quando arriva il fuoco. Poiché i semi di queste specie sono quasi completamente impermeabili al fuoco, questo stratagemma è l’unico modo per ‘battere’ la vegetazione concorrente e riprodursi con successo sfruttando le condizioni ambientali avverse a proprio vantaggio. Tuttavia” – puntualizza il ricercatore – “questa volta le condizioni di siccità sono così estreme che sono in fiamme anche ecosistemi forestali tradizionalmente più umidi e raramente interessati dal fuoco”.

Cosa ha causato le accensioni?

Nel terzo punto del suo intervento, Giorgio Vacchiano pone l’accento sul risvolto più dibattuto dell’intera vicenda: le cause degli incendi. Lo scienziato spiega che “in Australia, metà delle accensioni sono causate da fulmini, e metà dall’uomo per cause sia colpose che dolose (in Italia invece il 95% è di cause antropiche, prevalentemente colpose). Gli incendi più grandi tendono tuttavia a essere causati dai fulmini, perché interessano le aree più remote e disabitate, dove è meno probabile che arrivino le attività umane (con la possibile eccezione degli incidenti alle linee elettriche, che sono state responsabili anche dei devastanti incendi in California del 2017 e 2019). Secondo Ross Bradstock, dell’Università di Wollongong, un singolo incendio causato da fulmine (il Gospers Mountain Fire) ha già percorso da ottobre a oggi oltre 500.000 ettari di bush, e potrebbe essere il più grande incendio mai registrato nel mondo in tempi storici”.

Cosa sta causando il propagarsi delle fiamme?

Nel punto successivo, l’attenzione del ricercatore si muove sulle cause da cui deriva il propagarsi dei roghi. “Il 2019” – spiega Vacchiano – “è stato in Australia l’anno più caldo e più secco mai registrato dal 1900 a oggi. Nell’ultimo anno le temperature medie sono state 1.5 gradi più alte rispetto alla media 1961-1990, le massime oltre 2 °C in più, ed è mancato oltre un terzo della pioggia che solitamente cade sul continente. Un’ondata di calore terrestre e marina ha fatto registrare nel Paese temperature record a dicembre (42 °C di media nazionale, con punte di 49), mentre la siccità si protrae ormai da ben due anni. Quando l’aria è calda e secca, la vegetazione evapora rapidamente acqua e si dissecca. Più la siccità è prolungata, più grandi sono le dimensioni delle parti vegetali che si seccano. Quando anche le parti più grandi (fusti e rami) perdono acqua, cosa che avviene molto raramente, gli incendi possono durare più a lungo: proprio come in un caminetto, i ‘pezzi’ piccoli sono quelli che fanno accendere il fuoco, e quelli grandi sono quelli che bruciano per più tempo. I combustibili forestali vengono infatti classificati come ‘combustibili da un’ora’, ‘da dieci ore’, ‘da cent’ o ‘da mille ore’ a seconda della loro dimensione e di quanto lentamente perdono o guadagnano umidità; quanto più grandi sono i pezzi che si seccano, tanti più lentamente ritornano in condizioni normali e tanto più a lungo possono sostenere una eventuale combustione. Quello che diffonde le fiamme, invece, è il vento, che spinge l’aria calda generata dalla fiamma sulle piante vicine. Normalmente, gli incendi più vasti si verificano infatti in giornate molto ventose. Incendi molto grandi e intensi sono addirittura in grado di crearsi il vento da soli: l’aria calda sale così rapidamente da lasciare un ‘vuoto’: per riempirlo, accorre violentemente altra aria dalle zone circostanti. Il risultato è una firestorm, il ‘vento di fuoco’, con il quale l’incendio si auto-sostiene fino all’esaurimento del combustibile disponibile”.

Come mai gli incendi non si riescono a spegnere?

Nel quinto punto Vacchiano si sofferma su un’altra domanda frequente tra il pubblico non inesperto: perché risulta difficile spegnere i roghi. Come puntualizza lo studioso: “per estinguere un incendio è necessario eliminare il combustibile. L’acqua e il ritardante lanciati dai mezzi aerei possono solo rallentare la combustione (raffreddando il combustibile o ritardando chimicamente la reazione di combustione), ma per eliminare il combustibile servono le squadre di terra. Incendi di chioma intensi come quelli che si stanno sviluppando in Australia possono generare fiamme alte decine metri, procedere a velocità superiori a dieci chilometri orari (la velocità di corsa di un uomo medio) e sviluppare una potenza di centomila kW per metro lineare di fronte. Le squadre di terra non possono operare in sicurezza già con intensità di 4000 kW per metro (25 volte inferiore a quella degli incendi più intensi)”.

Quali sono gli effetti degli incendi?

Come spiega il ricercatore, “il bush Australiano è un ambiente che desidera bruciare con tutte le sue forze, e bruciando migliora il suo stato di salute e la sua biodiversità – con i suoi tempi, rigenerandosi nel corso di anni o decenni. Anche gli animali conoscono il pericolo e molti sanno rispondere: la stima di mezzo miliardo di animali coinvolti (o addirittura un miliardo) rilanciata dai media è una stima grossolana e un po’ allarmista, che considera ad esempio anche gli uccelli – che ovviamente possono volare e allontanarsi dall’area – con l’importante esclusione dei piccoli e delle uova. Gli animali più piccoli e meno mobili (koala, ma anche anfibi, micromammiferi e rettili) possono effettivamente non riuscire a fuggire, e questi habitat saranno radicalmente modificati per molti anni a venire – molti animali non troveranno più condizioni idonee. Altri, in compenso, ne troveranno addirittura di migliori. È un fenomeno noto in Australia quello per cui alcuni falchi sono in grado di trasportare rametti ardenti per propagare attivamente gli incendi su nuove aree, liberando così la visuale su nuovi territori di caccia. Gli incendi invece possono creare forti minacce alle specie rare di piante (come il Pino di Wollemi) e sono soprattutto molto problematici per l’uomo: già 25 vittime per un totale di 800 morti dal 1967 a oggi, il fumo che rende l’aria pericolosa da respirare, proprietà e attività distrutte per miliardi di dollari di danni. In più, gli incendi creano erosione, aumentano il rischio idrogeologico e rischiano di rendere a loro volta ancora più grave la crisi climatica sia a livello globale, contribuendo all’aumento della CO2 atmosferica (306 milioni di tonnellate emesse finora secondo la NASA, quasi pari alle emissioni di tutto il Paese nel 2018), che locale, depositando i loro residui sui ghiacciai neozelandesi che, resi così più scuri, rischiano di fondersi con maggiore rapidità.

Cosa c’entra il cambiamento climatico?

Nel settimo punto del suo intervento, Vacchiano sposta il focus su un altro aspetto cruciale: il ruolo dell’emergenza climatica sugli incendi attualmente in corso nel territorio australiano. Lo scienziato evidenzia quindi che “a straordinaria siccità australiana è stata generata da una rara combinazione di fattori. Normalmente il primo anello della catena è El Nino, un riscaldamento periodico del Pacifico meridionale che causa grandi cambiamenti nella meteorologia della Terra, ma quest’anno El Nino non è attivo. Si è invece verificato con una intensità senza precedenti un altro fenomeno climatico, il Dipolo dell’Oceano Indiano (IOD) – una configurazione che porta aria umida sulle coste Africane e aria secca su quelle Australiane. E’ dimostrato che il riscaldamento globale può triplicare la frequenza di eventi estremi nell’IOD. A questo si è sovrapposto, a settembre 2019, un evento di riscaldamento improvviso della stratosfera (oltre 40 gradi di aumento) nella zona Antartica, anch’esso straordinario, per cause “naturali”, che ha portato ulteriore aria calda e secca sull’Australia. Il terzo fenomeno è stato uno spostamento verso nord dei venti occidentali (o anti-alisei), i venti che soffiano costantemente da ovest a est tra 30 e 60 gradi di latitudine sui mari dei due emisferi terrestri. Lo spostamento verso nord degli anti-alisei (Southern Annular Mode) porta aria secca e calda sull’Australia, e sembra venga favorito sia dal climate change che, pensate un po’, dal buco dell’ozono. Il cambiamento climatico quindi c’entra eccome, sia nella sua azione diretta (l’aria australiana si è riscaldata mediamente di almeno un grado nell’ultimo secolo) sia indirettamente attraverso le sue influenze sulle grandi strutture meteorologiche dell’emisfero sud.

Cosa c’entra la politica australiana?

Non manca nel post di Vacchiano un riferimento all’influenza delle decisioni politiche locali su ciò che sta accadendo. L’esperto ricorda che “molte critiche si sono concentrate sul governo Australiano, responsabile di non impegnarsi abbastanza per raggiungere i già modesti impegni (riduzione delle emissioni del 28% dal 2005 al 2030) che il Paese aveva contratto volontariamente agli accordi a Parigi. Il problema principale è che l’economia dell’Australia è fortemente basata sull’estrazione e l’esportazione di carbone (soprattutto verso Giappone – 40% dell’export -, Cina e India), un combustibile fossile la cui estrazione non è compatibile con il raggiungimento degli obiettivi di Parigi per contenere il riscaldamento della Terra al di sotto di 1.5 °C rispetto all’epoca preindustriale. L’industria del carbone impiega quasi 40.000 lavoratori australiani ed è fortemente sussidiata dal governo. L’attuale governo conservatore, come in altre parti del mondo, è tendenzialmente restio a decarbonizzare l’economia nazionale. Tuttavia non occorre confondersi:ogni nazione è connessa a ogni altra. Gli incendi in Australia non sono solo responsabilità del PM Morrison o di chi l’ha eletto, ma di tutte le attività che nel mondo continuano a contribuire all’aumento della CO2 atmosferica – produzione e consumo di energia (30%), trasporti (25%), agricoltura e allevamento (20%), riscaldamento e raffrescamento domestico (15%) e deforestazione (10%)”.

Si poteva prevedere o evitare?

Come evidenzia Vacchiano, tutti gli ultimi report dell’IPCC, delle istituzioni di ricerca australiane sull’ambiente, e dello stesso governo, concordano nel segnalare un aumento del pericolo incendi in Australia a causa del cambiamento climatico, con grado di probabilità “virtualmente certo”. Anche l’arrivo di configurazioni meteorologiche di grande pericolosità è monitorato e conosciuto con un buon anticipo. Gli allarmi sono stati diramati e le evacuazioni correttamente effettuate, a quanto mi è dato di sapere. Ma la sfida dei servizi di lotta agli incendi, valida anche in Italia, è come mantenere operativo un sistema che ha bisogno di attivarsi su vastissima scala solo una volta ogni decennio. L’altro strumento per evitare gli incendi è la prevenzione, che viene svolta su grandi estensioni con la tecnica del “fuoco prescritto”, che elimina il combustibile utilizzando una fiamma bassa e scientificamente progettata (un tipo di intervento approvato anche da molti ecologisti australiani, e praticato da quarantamila anni dalle popolazioni aborigene). Nel 2018-2019 sono stati soggetti a questo trattamento 140.000 ettari di territorio, la cui applicazione è però severamente limitata dalla mancanza di fondi e, sempre lui, dal cambiamento climatico, che riduce il numero di giorni con condizioni meteorologiche idonee ad effettuarlo. C’è da dire che l’intensità della siccità e degli incendi in corso avrebbe messo probabilmente in difficoltà anche i servizi e le comunità più preparate”.

Cosa possiamo fare?

Nel decimo e ultimo punto del suo intervento, il ricercatore lancia un appello. Come possiamo contribuire noi singoli cittadini ad arginare la crisi in corso? Come precisato da Vacchiano, è essenziale: “ridurre le nostre emissioni con comportamenti collettivi e ad alto impatto. Sforzarci di vedere l’impronta del climate change e delle nostre produzioni e (soprattutto) dei nostri consumi in quello che sta succedendo. Il problema più grande che abbiamo è questo. I koala sono colpiti duramente, ma domani toccherà ancora ad altri animali, altri ecosistemi… altri uomini. E forse anche a noi.”

Per chi vive a contatto con un bosco, quindi, secondo l’esperto è bene “informarsi sul pericolo di incendio e sulle pratiche di autoprotezione necessarie a minimizzare il rischio alla vostra proprietà: gli incendi colpiranno di nuovo anche in Italia, con sempre più intensità, e possibilmente in luoghi in cui non ve li aspettereste. Sapersi proteggere è estremamente importante”.

Ulteriori approfondimenti sul rapporto tra foreste, cambiamento climatico e incendi sono disponibili nel libro “La Resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta” (Ed. Mondadori, 2019), di cui lo stesso Giorgio Vacchiano è autore.

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