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L’impatto ambientale delle IA e le possibili soluzioni

Impatto ambientale della IA
Immagine creata da franganillo, Pixabay

Ormai si sa, la IA generativa ha un impatto ambientale ingente, a causa degli immensi data server che immagazzinano le informazioni. Esistono però alcune soluzioni per limitare i danni.

ChatGPT utilizza due piscine olimpioniche di acqua ogni settimana per poter rispondere alle nostre domande. Sembra impossibile, ma l’amara verità è che gli strumenti con emissioni invisibili hanno un grande impatto ambientale, proprio per la leggerezza con cui si utilizzano. Pensiamo ai condizionatori e i caloriferi, agli elettrodomestici, al cibo che mangiamo o, appunto, a quando chiediamo a ChatGPT di fornirci le istruzioni per cambiare la ruota della macchina.

Ma il consumo di risorse delle nuove tecnologie era un problema anche prima dell’avvento delle IA generative. Infatti, a partire dal lancio dei primi elettrodomestici nella seconda metà del ‘900, molto di ciò che ci circonda può essere considerato “intelligenza artificiale” o, per usare un termine più affascinante, un “robot”. La lavastoviglie, o appunto il robot da cucina, il telefono, le stesse automobili.

Cosa effettivamente si intenda con intelligenza artificiale ce lo spiega meglio Fjona Cakalli, relatrice dell’evento “Sostenibilit-IA” organizzato dall’ associazione Bergamoscienza. Cakalli è presentatrice TV e imprenditrice digitale. Nel 2011 ha creato Games Princess, il primo sito italiano dedicato ai videogiochi gestito solo da ragazze e Tech Princess, un sito che racconta la tecnologia in modo semplice e coinvolgente. Ha anche un canale Youtube, The Driving Fjona, in cui si parla di auto. Insomma, una voce autorevole in quanto a macchine. Un’intelligenza artificiale – dice Cakalli  – è una macchina che è in grado di fare qualcosa per cui si pensava fosse necessaria l’intelligenza umana, semplicemente imitando i risultati delle nostre azioni. Più questi risultati sono realistici, più il processo di realizzazione sembra genuino, reale, “originale”.

Fjona Cakalli e Paolo Attivissimo durante un evento moderato dai volontari dell’associazione Bergamoscienza

Per questo anche una lavatrice può essere considerata intelligenza artificiale: ricevute delle istruzioni, essa riesce a svolgere un lavoro che avrebbe potuto svolgere chiunque, ma in molto meno tempo. Arrivando ai computer e poi a internet, questo processo è ancora più evidente. Dopo aver loro fornito una quantità di istruzioni sufficiente, questi strumenti sono in grado di indicarci la strada per arrivare in città evitando il traffico, svolgere complicati calcoli, consigliarci articoli allineati ai nostri interessi e così via.

Passiamo quindi alla IA generativa. Gli strumenti che generano testi e immagini dal nulla, non solo attingono ai miliardi di dati che noi negli anni abbiamo inserito sul web, ma devono essere ulteriormente “istruiti” per filtrare i risultati e darci un risultato ai nostri occhi strabiliante. In pratica, ChatGpt ci sostituisce nella ricerca su Google, nel filtrare le informazioni, nell’unirle in un unico file, uniformarle e creare un testo leggibile e grammaticalmente corretto. Proprio come una lavatrice che lava i panni al nostro posto, ma con un input di informazioni infinitamente maggiore.

Con l’avvento dei computer e di internet si è reso necessario costruire immensi data center per immagazzinare tutte le informazioni al fine di “istruire” e rendere più efficienti questi robot. Con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa i data center sono diventati ancora più indispensabili e, quindi, energivori.

Come ha affermato il secondo relatore dell’incontro di Bergamoscienza, il giornalista informatico Paolo Attivissimo, queste gigantesche server farm hanno un impatto ambientale grandissimo, poiché utilizzano moltissima energia. Infatti, è necessario tenerli costantemente accesi e attivi, consumando corrente elettrica. Inoltre, per evitare il surriscaldamento delle apparecchiature vengono utilizzati diversi metodi per raffreddarle, che ovviamente richiedono energia. Uno è il raffreddamento evaporativo, che porta l’aria più fredda dell’esterno all’interno del centro e preleva l’aria calda portandola fuori. Oppure ancora viene utilizzata l’acqua fredda, che però talvolta necessita di essere raffreddata artificialmente.

Uno studio condotto dai ricercatori della startup AIHugging Face e della Carnegie Mellon University mostra come la creazione delle immagini sia di gran lunga il lavoro con maggior impatto ambientale. Infatti, generare una sola immagine con la IA richiede la stessa energia necessaria per caricare completamente uno smartphone.

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), i data center rappresentano l’1–1,5% del consumo globale di elettricità, emettendo circa l’1% dei gas serra globali. Un dato che è destinato a crescere, poiché siamo soltanto alle fasi embrionali di una tecnologia che, se oggi è ancora poco utilizzata e talvolta un po’ goliardica, nei prossimi anni dominerà le nostre vite.

Abbiamo già accennato all’utilizzo dell’acqua per il raffreddamento dei server. Ebbene, anche questo è un grosso problema, visto che l’acqua dolce è la risorsa più scarsa a livello globale, ma paradossalmente anche la fonte primaria di vita sulla terra. In un articolo di Forbes di legge che essa costituisce solo il 2,5% del volume totale mondiale e più della metà è ghiacciata. L’agricoltura utilizza il 70% di ciò che è effettivamente utilizzabile e, secondo la FAO, un terzo del cibo prodotto nel mondo viene sprecato. Alla luce di questo, è realistica la previsione per cui, entro il 2050, due terzi della popolazione mondiale soffrirà di scarsità d’acqua.

Anche Attivissimo ha parlato dell’impatto idrico delle IA generative. Secondo il Data Center Techtarget – dice Attivissimo – un data center medio di Google consuma circa 450.000 litri d’acqua al giorno, più o meno la stessa quantità utilizzata per irrigare 17 acri di prato erboso. Ovviamente – continua il giornalista – alcuni data center sono più piccoli e possono utilizzare circa 10.000-15.000 galloni al giorno, fino a quelli di grandi dimensioni che possono consumare milioni di galloni al giorno.

Lo ha confermato anche uno studio condotto da alcuni studenti dell’Università della California. Nel documento si legge che una “formazione” di due settimane per il programma GPT-3 AI nei data center di Microsoft negli USA ha consumato circa 700.000 litri di acqua dolce, la stessa quantità utilizzata nella produzione di 370 automobili BMW.

Anche il luogo in cui i data center approvvigionano l’acqua è un’area di contesa. Molti centri, infatti, attingono da fonti di acqua potabile mantenuta dai servizi idrici. Inoltre, i data center vengono spesso istituiti in aree colpite dalla siccità. Ad esempio, NBC News ha riferito di un data center di Apple in una zona desertica Arizona nel 2021 che richiederebbe fino a 1,25 milioni di litri d’acqua ogni giorno ed è costato 800 milioni di dollari.

Esistono delle soluzioni che, se attuate sin da subito, potrebbero davvero evitare problemi molto maggiori rispetto a quelli a cui già stiamo assistendo.

Innanzi tutto, sfruttare il più possibile l’acqua non potabile. Google, per esempio, ha dichiarato di utilizzare acqua non potabile nel 25% dei campus dei propri data center. È qualcosa, ma non sicuramente abbastanza. In generale, sarebbe bene utilizzare alternative all’acqua dolce ove possibile, come acqua bonificata o riciclata, soprattutto nelle aree affamate e scarse d’acqua.

Inoltre, come suggerisce Shoalei Ren, professore associato di ingegneria informatica ed elettrica all’università della California e autore del già citato studio, si potrebbero “allenare” I modelli AI durante le ore più fredde, quando sarebbe necessaria meno acqua e meno processi di evaporazione. Questo però cozzerebbe, afferma Ren, con l’esigenza di rendere più sostenibile il consumo energetico dei data center con l’utilizzo dei pannelli solari, che ovviamente assorbono più energia dalle ore più calde. Un compromesso sarebbe quello di accumulare energia solare in una batteria per poi riutilizzarla in un secondo momento.

Un’altra soluzione per ridurre l’impatto ambientale delle IA menzionata da Paolo Attivissimo è quella delle TINY AI. Si tratta di un’intelligenza generativa che non utilizza modelli che prendono i dati da gigantesche server farm, bensì modelli più piccoli, più mirati e precisi. I chatbot, infatti, per poter rispondere alle richieste, “pescano” i dati dalle grandi server farm, consumando circa 800 milioni di watt per ogni ricerca. Invece, ricorrendo alle TINY AI ai si utilizzerebbero soltanto 20 milioni di watt.

Arun KL, ingegnere esperto in di cybersecurity, spiega il loro funzionamento in un post su un blog di tecnologia: Le TINY AI servono per “distillare la conoscenza”, riducendo i dati da cui attingono per rispondere. Ciò elimina la necessità di inviare i dati al cloud per l’elaborazione e gli algoritmi vengono eseguiti sul dispositivo stesso, senza strumenti come Chatgpt che fanno da tramite.

È come se, scrive Arun, l’intelligenza artificiale più grande e sofisticata (per intenderci Chatgpt) fosse l’insegnante, che sa moltissime cose oltre alla materia specifica. L’insegnante poi riferisce allo studente, la TINY AI, soltanto alcune conoscenze. Queste permettono comunque di rispondere alle nostre domande in modo efficace, magari più semplice, ma meno dispersivo. Si guadagna così anche in termine di tempo nella risposta in quanto la ricerca tra i pochi dati è molto più veloce.

Un ultimo, forse più ovvio, metodo per evitare il consumo di energia dato dalle IA generative è quello di limitarne l’utilizzo. Talvolta, per cercare un indirizzo oppure i passaggi di una ricetta, è possibile affidarsi alla semplice ricerca su Google, forse leggermente più lunga, ma altrettanto efficace. In certi casi, inoltre, cercare i contenuti in autonomia è più stimolante, perché mette alla prova il nostro spirito critico.

Come ha detto Fjona Cakalli, non dobbiamo dimenticarci di avere anche noi una “intelligenza”. Da ballerina, Fjona ha comparato la IA alla sbarra che si utilizza per gli esercizi basilari di danza. La sbarra non serve per appoggiarsi e scaricare tutto il nostro peso, facendo totalmente affidamento ad essa, bensì deve essere un mero supporto in caso di perdita di equilibrio o per imparare esercizi nuovi, crescere, ed eseguire uno spettacolo in mezzo al palco, dove la sbarra non c’è.

Per spiegare la metafora di Cakalli: se ci affideremo totalmente all’intelligenza artificiale generativa non saremo mai totalmente sicuri di noi stessi e degli effetti che questa avrà su di noi, sul nostro lavoro e sul mondo. Nello stesso tempo, ci precludiamo la possibilità di ragionare e sviluppare un nostro personale pensiero. Bisogna quindi utilizzare la IA quando se ne sente la necessità, ma anche metterla in dubbio, verificandone i contenuti e l’operato.

A questo proposito, è doveroso ricordare che l’intelligenza artificiale generativa potrebbe essere un grande aiuto per contrastare la crisi climatica. Per esempio, può analizzare con più efficienza i dati sulle condizioni meteorologiche e sui sensori sismici. Si possono così prevenire disgrazie causate da alluvioni, uragani, terremoti, incendi. Può monitorare la qualità dell’aria e dell’acqua, lo stato della deforestazione, l’erosione del suolo e molto altro. Le tecnologie IA possono anche migliorare l’efficienza dei processi industriali, riducendo gli sprechi di energia, materiali e risorse. Possono inoltre contribuire allo sviluppo delle energie rinnovabili.

Uno strumento, la IA, che può essere quindi insieme causa e soluzione della crisi climatica. Un paradosso che potrebbe non essere tale se, accanto alla intelligenza artificiale, sapremo utilizzare anche un’altra intelligenza: la nostra.

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2 Commenti

2 risposte

  1. Leggo con grande interesse l’articolo sull’IA.
    Molto ben informata la giornalista e dati che non conoscevo; mi ha chiarito un po’ le idee in un mondo così confuso.

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