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Cos’è la #nospendchallenge e perché fa bene all’ambiente (e non solo)

(Adnkronos) –
Spendere poco, o niente. Un obiettivo che può diventare un imperativo non solo in caso di grave avarizia o di minimalismo estremo, ma anche per necessità – il costo della vita in tutto il mondo, anche quello ricco, è diventato un problema – oppure, più nobilmente, per ridurre il proprio impatto sull’ambiente. In un mondo, virtuale e non, dominato da sfide di ogni tipo, comprese le più sciocche, la no-spend-challenge, ovvero l’impegno preso con se stessi di non comprare nulla che non sia strettamente necessario, si rivela tutt’altro che frivola. La #nospendchallenge è molto semplice, in teoria. Meno in pratica, ma non impossibile. Si tratta di decidere di non comprare nulla che non sia davvero indispensabile per un periodo che può andare da una settimana a un mese o un anno, a scelta. Dalla sfida sono escluse spese quali mutuo, bollette, cibo, medicinali necessari e acquisti che servono (ad esempio, anche un paio di scarpe se va a sostituirne uno vecchio, magari rotto).  I guru consigliano di definire a monte quali siano le cose a cui proprio non si vuole o può rinunciare, e lasciar perdere tutto il resto. Quindi ‘No’ all’acquisto di: • libri, se ne abbiamo già altri 50 che giacciono in attesa di essere letti (approfittare invece delle biblioteche) • vestiti e accessori (piuttosto rivisitare il proprio armadio con abbinamenti nuovi) • pranzi o cene fuori • junk food • creme e cremine in quantità  • bevande che non siano acqua • elettronica • media in streaming • prodotti per la pulizia • complementi d’arredo • qualsiasi altra cosa.  È soprattutto il perché ci si dovrebbe imbarcare in quella che sembrerebbe una scomoda privazione, a dare significato alla sfida. Che infatti non viene portata avanti da persone indigenti (in quel caso si chiama sopravvivenza) ma da persone motivate da altro. Su tutto, dalla difficoltà nella gestione del denaro e dal voler vivere in modo più sostenibile.  Non è un caso dunque che sia in particolare la Generazione Z – quella dei nativi digitali, nati tra il 1997 e il 2012 – ad aver abbracciato la challenge. Una fascia d’età particolarmente sensibile ai temi ambientali e spesso incapace di amministrare al meglio le proprie finanze. Quanto al primo punto, la sovraproduzione degli ultimi decenni, stimolata anche dal fast fashion, da status symbol stereotipati e ben radicati nella società ma verso cui i giovani sono sempre più insofferenti, insieme ai costi ecologici dei trasporti e del circo di resi e riacquisti, ha fatto sì che il prezzo ambientale sia ormai fuori controllo. E per una generazione attenta al Pianeta come la Gen Z, agire in prima persona viene praticamente da sé.  Per citare la fashion industry, che secondo Greenpeace Germania è la quarta causa di pressione ambientale, la produzione di abbigliamento dal 2000 al 2014 è duplicata: in media ogni persona compra ogni anno il 60% in più di capi, per usarli poi meno di 6 mesi. Perciò, secondo le previsioni, il numero di abiti prodotti oltrepasserà i 200 miliardi nel 2030. Risultato: nel Mondo, ogni secondo un camion di vestiti viene incenerito o gettato in discarica.  Non si può poi non pensare allo shopping online, cresciuto vertiginosamente dopo pandemia e lockdown. In questo caso sono da considerare i costi ambientali degli imballaggi, molto superiori a quelli della semplice busta con la quale usciamo dai negozi fisici, e le emissioni generate dal trasporto dei prodotti, aggravate dall’andirivieni di acquisti e resi che stanno rendendo la situazione un vero girone dantesco. Inoltre, molto spesso il dover risistemare, ri-eticchettare, stoccare e rendere di nuovo vendibile l’oggetto rendono più conveniente farlo finire direttamente in discarica. Il reso diventa rifiuto. In sostanza, uno spreco di risorse a 360 gradi. Si parla di numeri importanti: secondo una ricerca effettuata da Deloitte, l'acquisto online genera resi cinque volte di più rispetto al negozio fisico; si stima circa il 40% di restituzioni per l'online contro il 7% nei negozi fisici. Tanto che il 2024 potrebbe essere l’anno dell’addio ai resi gratuiti. E se, secondo alcune ricerche, l’e-commerce genererebbe invece meno gas serra rispetto allo shopping nel punto vendita, in entrambi i casi i costi ambientali degli acquisti sono molto elevati. Figuriamoci se l’acquisto in questione è superfluo, e dunque evitabile.  Spendere quasi nulla se non per ciò che davvero serve significa spezzare il circolo vizioso dell’acquisto compulsivo, che per definizione viene fatto senza un reale motivo se non quello di ricevere la scarica di dopamina – l’’ormone della felicità’ – data dalla novità. Un benessere di brevissima durata che spinge a cercarne ancora, proseguendo con gli acquisti. In pratica, lo stesso meccanismo delle dipendenze.  Aderendo alla ‘no spend challenge’ invece magicamente scopri di avere in casa vestiti, cibo, libri e quant’altro in abbondanza, prima di ritrovarti davvero nella necessità di doverne ricomprare. La sfida ti inchioda davanti al classico paradosso del dire, di fronte all’armadio straripante di borse, pantaloni e vestiti: “Non ho niente da mettermi”. Credendoci pure. Ma se guardi meglio, non sono certo gli outfit, né il resto, a mancare.  La challenge dunque aguzza la creatività ed è il primo passo per una vera economia circolare a km zero, quella dentro casa propria, inseguendo l’arte del riciclo. Il risultato è anche che si diventa più consapevoli di se stessi e delle proprie reali necessità, e al contempo si esce dalle stritolanti logiche del consumismo. “È liberatorio non prendere nemmeno in considerazione l'idea di entrare nei negozi o navigare online per acquistare cose”, dicono i Gen Z. Ed ecco perché per molti giovani la interpretano come una sfida "anti-consumismo". Una visione del mondo confermata dalla tendenza di Millennials e Gen Z a non voler barattare benessere e tempo libero con i soldi. E che proprio per questo sono sempre meno interessati alla carriera, se ciò significa ‘non avere una vita’ o dover sacrificare le proprie passioni e le proprie relazioni.  La pandemia ha sicuramente fatto esplodere un magma che già ribolliva sotterraneamente e di cui le persone non erano nemmeno consapevoli, stritolate nella quotidiana ‘ruota del criceto’. Quiet quitting (l’’Abbandono silenzioso’, un po’ il tirare i remi in barca) e Great Resignation (le ‘Grandi dimissioni’) ne sono la prova, non solo per i più giovani. Per quanto riguarda il secondo aspetto, la gestione del denaro, anche in questo caso la #nospendchallenge rivela la sua utilità. Intanto, secondo un’indagine di Esdebitami Retake e Nomisma, solo 1 ragazzo su 5 della Gen Z pensa a quanti soldi ha a disposizione prima di comprare qualcosa.  Non solo, ma i giovani sono considerati, insieme a donne e nuovi italiani, come i soggetti più fragili rispetto all’educazione finanziaria e assicurativa. Secondo l’Osservatorio Edufin Index, l’Italia è ancora insufficiente in tali materie (con 56 punti su 100, 60 la sufficienza), e il 10% dei concittadini in questo campo è addirittura in una situazione di analfabetismo, con una fortissima disuguaglianza di genere.   I giovani tra 18 e 34 anni, se da una parte hanno un’alta propensione a informarsi, in quanto costantemente connessi al mondo digitale, dall’altra non mostrano particolare interesse verso questi temi e sono poco coinvolti nella gestione finanziaria familiare. La non spend challenge, portando a riflettere su ogni acquisto e dunque anche in qualche modo a programmare come usare i propri soldi, è un aiuto per prendere consapevolezza anche in questo campo. E imparare a gestirsi. In definitiva, la #nospendchallenge dimostra che, in fondo, si può vivere con molto meno, e molto bene. L’ambiente ringrazia, il portafoglio pure e probabilmente anche la salute mentale. —economiawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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